Con ‘brand activism’ ci si riferisce all’impegno di un’azienda verso una o più cause di rilevanza sociale, politica e culturale.
La crescente attenzione per questo aspetto del marketing e la diffusione del termine si devono agli esperti Philip Kotler e Christian Sarkar. Nel loro libro Brand Activism. From purpose to action, i due definiscono il brand activism come la chiara volontà da parte dell’azienda di assumersi responsabilità sociali e di promuovere o impedire riforme al fine di partecipare al raggiungimento del bene comune.
Brand Activism progressivo e regressivo
Kotler e Sarkar hanno individuato due diverse strategie di attivismo: regressivo e progressivo. Il Brand Activism è regressivo quando le aziende perseguono attivamente politiche che danneggiano il bene comune.
I brand possono farlo nascondendo o minimizzando gli effetti negativi dei propri prodotti sulla salute, sull’ambiente e sulla società. L’esempio più eclatante sono le pubblicità delle aziende produttrici di tabacco che, per anni, hanno negato gli effetti negativi sulla salute

Al contrario, il Brand Activism di tipo progressivo è teso ad apportare miglioramenti alla collettività; in questo caso i brand decidono di farsi portavoce di fondamentali problemi di ambientali e sociali.
Le diverse forme di attivismo progressivo
Le cause che le aziende possono decidere di perorare sono assai diversificate. Kotler e Sarkar hanno identificato sei macro-tipologie di attivismo progressivo, che includono i principali problemi verso cui le imprese mostrano interesse.
Si tratta in primo luogo di attivismo sociale e attivismo ambientale, che riguardano rispettivamente problematiche relative a questioni sociali e comunitarie e problematiche ambientali.
Abbiamo poi l’attivismo aziendale e l’attivismo giuridico, che riguardano invece tutte quelle normative volte a regolare l’organizzazione aziendale (ad esempio gestione delle retribuzioni, controllo sulle condizioni di lavoro ma anche le leggi sull’occupazione, l’inclusione..).
Ci sono infine l’attivismo politico e l’attivismo economico: il primo copre questioni politiche, come l’esercizio del diritto di voto, e il secondo include politiche salariali e fiscali.
La diffusione del brand activism
Il Brand Activism è ad oggi un nuovo imperativo per il business, perché sono i consumatori a chiederlo. Attualmente sono sempre di più i soggetti consapevoli e attenti verso i problemi della modernità: si veda ad esempio la crescita del fenomeno della moda second-hand.
Il nuovo tipo di compratore attento desidera quindi acquistare un prodotto che rispetti i propri valori. Allora oggi viene chiesto alle aziende di agire, di trasmettere i giusti messaggi. Come? Attraverso una filiera di produzione rispettosa dell’ambiente, dei lavori e delle comunità, ma anche attraverso strategie di marketing che veicolino certi messaggi e che sostengano cause rilevanti.
Brand activism o strategia?
Quando l’appello viene accolto, gli sforzi delle imprese vengono ricambiati con una nuova visibilità per il brand. Ecco che allora l’attivismo può trasformarsi in pura strategia commerciale senza alcuna reale attenzione a questioni di carattere sociale, ambientale o politico.
Quindi, per non farsi ingannare e perché il brand activism possa funzionare, è necessario che la causa sostenuta sia coerente con i valori dell’azienda, ma soprattutto che sia dimostrata dai fatti. Infatti la prova dell’impegno di un brand nell’attivismo si trova proprio nelle scelte che si compiono e non negli slogan.
Un esempio del brand activism come mera strategia è il fenomeno del greenwashing. Un ambientalismo di facciata caratteristico di quei marchi che costruiscono una falsa immagine green nascondendo gli effetti negativi per l’ambiente dovuti alle proprie attività o ai propri prodotti.
Un esempio positivo: Patagonia
Il Patagonia’s Mission Statement recita: ”We’re in business to save our home planet”. Il brand rappresenta uno di quei casi dove i fatti confermano le parole: Patagonia ha infatti in cantiere diversi progetti che testimoniano il suo impegno nella tutela dell’ambiente.
Un esempio è Re/collection lanciata nel 2016. Questa linea offre capi realizzati con materiali riciclati, tra i quali: il 100% di lana riciclata, l’80% di cerniere riciclate o ancora il 50% di bottoni riciclati.
L’importanza del brand activism è in crescita ma certamente è qualcosa di ancora completamente estraneo a molti marchi. È interessante terminare con una riflessione di Kotler e Sarkar: sarebbe utile trovare un modo per riconoscere e premiare l’impegno delle aziende nell’attivismo? Questo permetterebbe di incentivarlo?
Federica Cantini – Area Comunicazione